1 maggio


Domani è primo maggio, festa dei lavoratori, a quanto mi ricordo.

O forse è la festa dello shopping, come titolava ieri un giornale?
È da qualche giorno infatti che si sta discutendo sui mass media di questa piccola innovazione nei rituali della festa: aprire i negozi per permettere agli italiani, che per un giorno non lavorano, di festeggiare facendo compere. Verrebbe quasi da scherzarci su dicendo che non c’è una forma di festeggiamento del lavoro più adeguato al nostro tempo dello shopping: solo che la cosa è secondo me un po’ più seria, e in questo caso non credo che una risata possa bastare a seppellirla.

Leggendo le cronache mi ha colpito il fatto che in alcune città si sia deciso di sospendere l’ordinanza che permetteva l’apertura dei negozi in un giorno di festa per motivi di ordine pubblico. E sentendo il telegiornale ieri sera un signore sosteneva che era una buona idea, così le città non sarebbero state vuote: il signore sembrava voler dire che così avrebbe fatto festa pure lui; forse era un commerciante, o forse sono solo io ad essere malmostoso, accigliato e prevenuto.Mi è venuto da collegare immediatamente questa idea ad un’altra idea, anch’essa segno dei tempi: qualche tempo fa, in una delle sue periodiche, entusiastiche esternazioni del proprio pensiero il ministro Brunetta aveva suggerito di cambiare il primo articolo della costituzione. L’Italia, secondo lui, non dovrebbe più essere definita “una repubblica fondata sul lavoro” ma una repubblica fondata sul “merito”.

Secondo me questi sono solo due piccoli segnali della progressiva scomparsa del lavoro dal nostro orizzonte. Ne potrei aggiungere altri, come la rubricazione degli eventi riguardanti il lavoro nelle pagine dell’economia (o al massimo della cronaca, quando c’è un incidente) sui quotidiani nazionali, anche in quelli più attenti ai temi sociali. Ma non è il caso.

Nell’apertura dei negozi per il primo maggio c’è un rischio: che la festa del lavoro venga svuotata della sua carica simbolica (appunto, astenersi dal lavoro per celebrarne l’importanza). Io non lo considererei nemmeno un “attacco” preordinato e concertato al valore del lavoro ma, semplicemente, il segno di un percorso che ormai è stato quasi interamente compiuto. Ma questo non significa che sia meno grave. Ormai da molto tempo il lavoro ha perso il suo valore, cioè la capacità che aveva di definire l’orizzonte esistenziale di una persona. Cosa strana, questo accade proprio quando molte persone si “ammalano” di lavoro: e non penso certo solo alle malattie fisiche (peraltro, quanto sono diffuse? ma che ne sappiamo? qualcuno ce lo dice mai?). Penso anche alle “malattie” legate alla sfera esistenziale, come nel caso di tutti quegli uomini e quelle donne che continuano a stare in ufficio oltre l’orario stabilito perché fuori non sanno cosa fare, perché è in quell’ambiente che hanno un ruolo. Oppure penso a tutti quei lavoratori precari, la cui intera vita diventa precaria perché sempre a caccia di un contratto nuovo che gli dia la possibilità di consolidare le proprie certezze quotidiane, la casa, gli affetti, i divertimenti. Dunque, forse, non è poi così vero che il lavoro non stabilisce orizzonti esistenziali; come, forse, non è vero che essi sono definiti solo da quello che c’è nel tempo libero, lo shopping, il divertimento e così via.

Ma c’è di più: perché la festa del lavoro non è solo una festa dei lavoratori, ma una festa nazionale. Cioè una di quelle feste che danno un’identità alla nazione, che stabiliscono come una nazione si vede. E cambiarne la ritualità – che in una festa è parte della sua stessa essenza – significa cambiarne profondamente il volto, e quindi dare un piccolo ritocco all’immagine della società e della nazione che quella festa contribuisce a disegnare.

Sulla metropolitana, ieri, ho sentito un signore che si lamentava dell’inutilità della festa del lavoro quando il lavoro non c’è. Non me la sento di dargli torto: a che serve festeggiare qualcosa che non c’è? Ma non me la sento nemmeno di dargli ragione. Qui forse l’equivoco è sulla parola festa, intesa solo come divertimento, svago, spensieratezza: e invece lo sforzo che bisognerebbe fare è tornare a pensare a questo rito come ad un momento di costruzione di un’identità collettiva, appunto quella di una “repubblica fondata sul lavoro”.

Buon primo maggio a tutti.




Dimenticavo: io sono a Milano, su Radio Tre, in una puntata speciale di Fahreneit dedicata al primo maggio. Se qualcuno si collega, buon ascolto.

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Andrea Sangiovanni © Creative Commons 2010 | Plantilla Quo creada por Ciudad Blogger