di parole e di figure

E alla fine, mettendo insieme tutti i puntini (degli indizi disseminati nell'ultimo anno vi avevo già parlato qui), il disegno che esce fuori è questo
Ho avuto la sorpresa di trovare già qualcuno che ne parla in rete.
Non è niente di più della trascrizione di una scheda redazionale, ma intanto potete darci un'occhiata per farvi un'idea. Poi ne riparliamo.

...sta arrivando

Nei mesi scorsi avevo lasciato tracce  sparse.
Questa era stata la prima.
Poi c'era stata questa.
Poi, un po' più criptica, quest'altra.
E poi era arrivato questo post.

Briciole, segni sparsi che portano a questo


Ripartire in Panda?

La prima volta che l'ho visto, verso ora di cena, non ho nemmeno ben capito di che si trattava. Non subito perlomeno.
In un primo momento ho pensato che fosse una comunicazione istituzionale, studiata per ridare fiducia ad un paese spiaggiato, che cerca attonito di uscire dalle secche in cui è finito.
Ma no, mi sono detto, troppo distante dallo stile dell'attuale governo.
E poi ci sono tanti operai. Troppi, soprattutto per un paese con una produzione industriale così bassa come la nostra.
Poi è arrivato il marchio, la prima volta quasi casualmente. Poi una seconda: un'asserzione.
E allora è stato tutto - o quasi tutto - chiaro.
E' il nuovo spot della Fiat, e se non lo avete ancora visto ve lo metto qui sotto.

Avrei molte cose da dire su questo filmato, per esempio sulla coerenza fra le politiche industriali dell'azienda e la sua comunicazione. Ma non lo farò: altri l'hanno fatto e lo faranno.
Invece mi voglio soffermare su un aspetto più marginale, ma forse non meno significativo.
Quando l'ho visto, infatti, mi è subito venuto in mente un altro filmato promozionale che la Fiat aveva realizzato nel 1931 per il lancio della FIAT 522. Si chiama "Sotto i tuoi occhi" e non è attribuito, anche se sembra che dietro ci sia la mano di Mario Camerini. E' stato usato da Wilma Labate nella sequenza introduttiva di Signorina Effe (2007), ed è in questa versione che ve lo metto qui sotto.
Però, se volete vederlo nella sua versione originale andate qui , nel sito dell'archivio nazionale del cinema d'impresa.

Mi sembra che quello che accomuna due filmati così diversi sia la stessa idea della grandezza industriale, una grandeur che ha sempre caratterizzato la Fiat.
Allora, nel 1931, si mostrava al pubblico come nascesse "la più moderna delle autovetture", come dice l'attore ad una affascinata Isa Pola. Oggi si contrappone l'Italia "pittoresca" e quella dei "giovani che cercano un futuro" (a proposito, che facce sono secondo voi?  determinate o  disperate?) a quella "capace di grandi imprese industriali": ed ecco, non a caso, una veduta di stabilimenti Fiat.
Allora c'era il fascino delle grandi presse e della catena di montaggio. Oggi quello di una fabbrica robotizzata, pulita e quasi asettica, dove non sembrano esserci poi molte differenze tra gli operai e i tecnici specializzati.

Ma, a guardare bene, in questo passaggio c'è qualcosa che stride: "è il momento di ripartire", dice lo spot. Da dove? dalle macchine, viene da pensare guardando le immagini. Dalle braccia meccaniche che montano la vettura, e che sembrano contrapporsi alle prime braccia dello spot, quelle dell'artigiano che batte il ferro (altro che le grandi presse del 1931).
E la breve sequenza successiva, dove finalmente donne e uomini ci sono (ma anche qui, quanti stereotipi in quella figura di mamma/tecnico specializzato), non toglie la sensazione che quell'Italia industriale di cui si è parlato pochi secondi prima, non ci sia ormai più: è una sensazione che forse nasce dal fatto che siamo ormai alla fine dello spot, e che il marchio e l'oggetto da vendere occupano la scena. E così torniamo agli stereotipi: con quella città "tipicamente" italiana (direi Lucca, così a occhio) in cui si ferma la macchina sul claim finale. Quella è l'Italia che piace. Ma all'estero viene da pensare: negli Usa forse, dove attualmente (e credo che non cambierà in futuro) sono il cuore e la cassaforte dell'azienda. Un pensiero cattivo, forse. Ma quando poi scopri che lo spot è praticamente identico a quello della Grand Cherokee Chrysler non puoi che dare ragione a quanto scrivono sul Fatto quotidiano Dino Amenduni e Giovanna Cosenza.

E  finire per sottolineare le contraddizioni fra la forma e le intenzioni di questo spot .

un'antica tentazione

Chiunque di voi guardi anche solo per sbaglio la televisione se ne sarà accorto. 
Siamo in prossimità della scadenza del canone RAI e ci provano in tutti i modi a ricordarci che bisogna pagarlo. Lo dicono alla fine dei programmi e ci bombardano di spot come questi.



(...che non mi sembra nemmeno il peggiore della serie, tutto giocato com'è sulla polisemia della parola tributo)

Nonostante questo, sembra che il canone sia la terza tassa più odiata dagli italiani (lo dice contribuenti.it) e arriva subito dopo le varie accise e il ticket. Secondo alcuni dati, nel 2010 circa il 41% delle famiglie non pagavano il canone: cinque anni prima erano circa il 22% (altri dati li trovate qui). Sarebbe interessante scoprire se e quanto il dato sia legato alla contemporanea decrescita degli ascolti e all'aumento degli abbonamenti alle tv a pagamento...
Comunque, quello che è certo è che si tratta di un'abitudine antica. 
Guardate qua:
E' la copertina di un numero di Radiofonia, una rivista di informazione e tecnica rafiofonica del 1924.
Vi ricorda qualcosa questa data? è l'anno della nascita dell'URI (per un veloce ripassino, andate qui).
E già allora le prime riviste di radiofonia si lamentavano delle tasse, che erano considerate, oltre che ingiuste, un ostacolo alla diffusione della radio in Italia. 
Leggete che cosa scriveva La radio per tutti, un'altra di queste riviste, in un articolo in cui si tentava il bilancio di un anno di trasmissioni (Un anno di esperienza, 1 settembre 1925):
 Vengo ora al più grosso e più discusso inconveniente che è quello delle tasse. L’utente deve pagare, complessivamente, per il primo anno, circa 330 lire per un apparecchio a quattro valvole; circa 200 lire per un apparecchio a galena! Nessuna distinzione fra poveri e ricchi; fra acquirenti di un lussuoso impianto da sei o settemila lire e quello di un impianto da meno di duemila; fra signorile amatore e studioso radiocultore. Anche qui l’anarchia impera. V’è chi paga e chi non paga il famoso “bollo”. Non si sa ancora se gli autocostruttori [cioè coloro che si costruiscono l’apparecchio ricevente da soli] debbano pagarlo o meno. Certo, tutta questa regolamentazione e fiscalismo sull’industria ed il commercio Radio inceppano ed impediscono lo sviluppo...
Un'altra epoca, senz'altro. 
Altri problemi, senza dubbio. 
Ma la propensione originale all'elusione si trova anche in quell'immagine e in quelle parole. Che poi, nei decenni successivi, sarebbero state ben altrimenti stimolate e rinforzate.

film da vedere: the artist

C'è un piccolo film che tutti voi dovreste vedere. E in particolare tutti voi che leggete queste righe perché siete - o siete stati - studenti di scienze della comunicazione.

Il film è questo

Dovete vederlo perché è divertente, brillante, intelligente. E perché è recitato ottimamente: spesso si dice che ci sono attori cani, mentre qui c'è un cane che è un vero attore.

E poi perché vale come una lezione di storia sociale del cinema in una delle sue prime fasi di apogeo e crisi, il passaggio dal muto al sonoro.

Come potrei raccontarvelo senza rovinarvi il piacere della visione? Diciamo che è la storia di una crisi professionale e personale, girata con garbo e leggerezza, con il giusto mix di dramma e divertimento. Ma soprattutto vi si ritrovano le facce e le espressioni, le movenze, i ritmi e i colori (o meglio, la loro assenza: perché, sì, è un film in bianco e nero) del cinema degli anni Venti e Trenta, il periodo in cui è ambientato, che vengono però impercettibilmente adattate alla nostra sensibilità visiva. Così quasi nemmeno ci rendiamo conto di trovarci di fronte ad un film "muto" (perché sì, oltre a non avere i colori, il film non ha nemmeno le parole), finché non è un intelligente cambio di ritmo e di organizzazione dell'immagine e della colonna sonora a ricordarcelo.

Ma non voglio stare qui a segnalarvi in modo pedantesco il modo in cui il film illustra quel periodo di transizione. Vedetelo, e lo capirete da soli.

Però c'è una annotazione che non riesco a trattenermi dal dirvi: questo film riesce anche con una serie di trovate brillanti e assolutamente "naturali" a ricordarci - o a insegnarci - che anche i film muti erano "sonori". Tutta la sequenza iniziale, per esempio, è uno splendido esempio di colonna sonora che da extra-diegetica si fa diegetica, mettendo in gioco la percezione dello spettatore e solleticando, allo stesso tempo, la sua intelligenza.

Ma è alla fine di quella sequenza che arriva il meglio: il famoso attore protagonista sale sul palco per ringraziare il suo pubblico.

E si esibisce in un perfetto (e divertente) numero di vaudeville, ricordandoci in questo modo la destinazione multipla delle sale cinematografiche e la provenienza di molti attori di cinema dal teatro di rivista. Pensavate davvero che sia stato un caso che The jazz singer - passato alla storia come il primo film sonoro della storia - riproducesse sullo schermo unalcuni elementi di un tipico numero musicale dell'epoca, il minstrel?

Al Jolson, protagonista di The Jazz Singer

avviso agli studenti

Il ricevimento del 18 gennaio è sospeso. Riprenderà regolarmente la prossima settimana. Per qualunque emergenza, sono comunque reperibile via e-mail.

di fumetti e delle loro storie

Questo post ha iniziato a nascere quando ho letto che cosa Daniele Barbieri ha scritto a proposito di un libro che ho messo già da tempo nella pila delle cose da leggere. Si tratta della recensione a Eccetto Topolino, di Fabio Gadducci, Leonardo Gori e Sergio Lama (Nicola Pesce Editore), e la potete trovare qui.

E' la storia di Topolino durante il fascismo e per avere qualche notizia in più sul volume potete andare qui: io prima o poi vi dirò cosa ne penso, ma - temo - più poi che prima, quindi per ora dovrete accontentarvi di questa immagine promozionale

Insomma, Barbieri dice sostanzialmente che il volume è una buona risposta ad una domanda che aveva posto qualche tempo fa Paolo Gallinari (il presidente dell'ANAFI): è possibile fare una storia del fumetto italiano? E come dovrebbe essere?
La riflessione partiva dalla constatazione che, a dispetto dei molti articoli, e di alcuni buoni libri, non è ancora stata scritta una storia del fumetto italiano: l'articolo lo potete leggere qui, e tenta una sintesi delle molte risposte di studiosi e appassionati che in campi diversi si sono cimentati con la storia del fumetto.

L'argomento mi sembra interessante, anche perché - effettivamente - anche nelle storie complessive dei media il fumetto è quasi sempre trascurato, o appena citato. Eppure è senza dubbio un mezzo di comunicazione di massa e, al pari della canzone e dell'editoria popolare, della radio, del cinema e della televisione, è parte dell'industria culturale. Ed uno dei canali attraverso cui si è formato il nostro immaginario collettivo.
In questa scarsa attenzione c'è probabilmente una antica abitudine tutta italiana a considerare il fumetto una forma narrativa di poca importanza, una "cosa per bambini". Cosa che, naturalmente, trova una corrispondenza anche nella scarsa considerazione che esso ottiene presso gli editori, che - come sostengono tutti o quasi tutti gli intervistati di Gallinari - ben difficilmente accetterebbero di pubblicare una storia del fumetto italiano.
Ma, forse (e questa è la mia idea e la mia risposta - non richiesta - alle domande di Gallinari), questo circolo vizioso potrebbe essere interrotto se si riconducesse il fumetto al suo essere medium, parte di un circuito della comunicazione che entra in risonanza anche con gli altri media, e che, infine, è un tassello dell'industria culturale di un paese. E, come per gli altri media, una sua storia non potrebbe essere disgiunta dalle influenze che i fumetti degli altri paesi hanno avuto presso di noi.
Dovrebbe essere una storia "olistica", che tenga aperto il dialogo fra tutti gli elementi che costituiscono il medium fumetto: storia di industrie editoriali, di linguaggi e della loro ricezione, di pubblici. E sarebbe ben interessante leggere, proprio attraverso i fumetti, l'evoluzione della società italiana: capire quanto essi la rispecchino, e se - e quanto - riescano ad anticiparla.
Forse, in fin dei conti, potrebbe essere meno interessante seguire la storia dei singoli personaggi rispetto a quella del medium in sé, anche se - è chiaro - la seconda non può darsi senza la prima.
Quanto alla forma che dovrebbe avere questa ipotetica storia? Alfredo Castelli ha risposto in modo molto preciso alla domanda di Giovannini (e non ci si poteva aspettare di meno dal creatore del logorroico BVZM):
il mio ideale sarebbe un'opera in due volumi formato A4, entrambi di 360 pagine...
Senza scendere ad un simile livello di dettaglio, forse, come suggerivano nell'articolo Traini e Nencetti, la forma migliore sarebbe quella di un'opera che sfruttasse al massimo la potenza della scrittura digitale per unire al meglio due andamenti narrativi. Lo sviluppo principale potrebbe essere di tipo cronologico, per seguire l'evoluzione del medium fumetto in relazione allo sviluppo dell'intero sistema dei media e del contesto sociale. Allo stesso tempo, però, la narrazione potrebbe dilatarsi in senso orizzontale, attraverso approfondimenti mirati su personaggi, case editrici, linguaggi, segni ecc.

Un lavoro complesso certo.
Ma, anche solo a pensarlo, a me è già venuta un po' voglia di leggerlo.
La prima copertina del vecchio "nuovo secolo" dell'ormai scomparsa Domenica del Corriere per augurarvi il mio personale buon anno.
Fra i propositi per il 2012 c'è anche quello di aggiornare con più frequenza queste pagine dalla "doppia personalità", parte blog, parte sito di servizio. Non comincio certo bene, visto che gli auguri arrivano in ritardo: vedremo se sarò in grado di mantere le promesse, magari con una prossima recensione di qualcosa di interessante che ho letto di recente.
Per ora gustatevi questa splendida illustrazione di Achille Beltrame, che aggiorna al 1900 le classiche Tre Grazie.

 
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