Il west(ern) tra cultura italiana e americana: una lezione

Il 5 novembre (accidenti è già passato più di un mese!) avevo una lezione con una collega statunitense ospite in Università, Renée M. Laegreid. Avevamo deciso di parlare del western dal punto di vista dei nostri rispettivi paesi, confrontando - per quanto possibile - immaginari e modalità narrative.
Annuncio sulla mia pagina facebook la lezione e questo è quello che mi appare poco dopo

I commenti sono tanti e sono entusiasti: simili dimostrazioni di affetto e stima gonfiano a dismisura il mio ego e così finisce che mi prendo l'impegno che potete leggere qui sotto:
Vi avevo promesso i miei appunti. C'ho messo un po' di tempo per metterli qui ma, per chi è ancora curioso, basta andare oltre la linea. 
Vi avviso: non sarà una lettura brevissima. Ma vi ho messo dei titoletti per aiutarvi ad orientarvi un po'. 
Se poi vi piace, fatemelo sapere.



La mia parte della lezione iniziava con la sequenza iniziale del film Un americano a Roma (Steno, 1954) interpretato da Alberto Sordi.


Come vedete, il film ironizza sull’infatuazione italiana per gli Stati Uniti e la sua cultura: emerge con chiarezza il fascino che i film western producono nel pubblico, ma questo amore per il west va contestualizzato da due diversi punti di vista. 

Contestualizzare l'amore per il western in Italia

Il primo è quello dei generi cinematografici: oltre al western americano esisterebbe, secondo Lorenzo Codelli, un “euro-western”, ovvero una tradizione di film ambientati nel west americano ma girati da europei, e quasi sempre anche in Europa, che viene fatta risalire addirittura ad un operatore dei fratelli Lumière, Gabriel Veyre, che tra il settembre e il novembre 1896 aveva girato delle vedute in Messico definendo visivamente una serie di topoi del futuro cinema western, e in particolare i movimenti in campo lungo che caratterizzano questo genere di cinema. Se questa affermazione è certo provocatoria – né alla fine ha molto senso perché un conto è l’immaginario visivo, un conto sono i codici narrativi di un film – è altrettanto certo che sin dagli anni ’10 del Novecento esistono attori e registi europei, francesi, spagnoli, tedeschi e italiani, che mettono in scena film di ambientazione western girati in Europa. 
Fra questi cito solamente – e per pura curiosità - un regista italiano, Roberto Roberti, il cui vero nome era Vincenzo Leone e il cui figlio, Sergio Leone, negli anni sessanta, rileggerà e, possiamo dire, rifonderà il western all’italiana. Naturalmente, in questo caso non stiamo parlando di film che hanno un rapporto con i processi di nation building come nel caso statunitense, ma solo di intrattenimento e di un cinema di genere che utilizza stereotipi – visivi e narrativi – nati negli Stati Uniti che riadatta solo in parte. 

Immaginario western e fumetto

È interessante osservare come questo “immaginario western” contagi anche altri settori dell’industria culturale di massa: possiamo prendere ad esempio il caso del fumetto (citato anche nel film che abbiamo visto prima), giusto per ricordare che verso la fine degli anni Trenta esordisce sulle pagine di “Topolino” il primo personaggio western a fumetti scritto e disegnato da un italiano.
Si tratta di Kit Carson, realizzato da Rino Albertarelli nel 1937: la sua genesi ci aiuta a capire meglio dei processi di produzione culturale che stiamo brevemente raccontando. Albertarelli del west non sapeva molto di più di ciò che aveva visto al cinema e, per costruire il suo personaggio, era partito dal nome, letto in un libro, come ha poi raccontato: 
ne avevo trovato il nome in un libro dello storico Truslow Adams, dove imparai che era stato un famoso cacciatore di pellicce e la guida di John Charles Frémont, nelle sue esplorazioni oltre le Montagne Rocciose e nella conquista della California. Mi bastò e non mi persi a cercare altro. Quello che mi piaceva era il nome, tre sillabe in tutto, con l'accento forte su quella centrale: un nome ideale da eroe fumettistico, come Flash Gordon o Dick Tracy. Soltanto dopo la guerra mi venne la curiosità di sapere chi fosse realmente Kit Carson…. 
In seguito Albertarelli inizierà a studiare il West e la sua cultura: negli anni Settanta, riverserà queste sue conoscenze in una collana a fumetti intitolata “I protagonisti” che traduceva a fumetti, in modo attendibile, le storie dei protagonisti del west.
Il secondo contesto è quello socio-politico: liberazione, gli Alleati (e in particolare gli americani) come simbolo della libertà, la guerra fredda e la scelta di campo dell’Italia. 
C’è quindi, nell’immediato dopoguerra, una vera e propria americanizzazione che significa, come ha scritto Umberto Eco, che 
l’America come modello, come rassegna e sistema di merci, come influenza politica, come immagine veicolata dai mass media, invade l’Italia. Prima era solo qualcosa che si leggeva sui libri o si vedeva al cinema. Dopo è qualcosa che investe la vita dell’italiano medio, dal chewing-gum ai dischi, sino allo sviluppo della motorizzazione e alla Tv. 
In realtà il termine americanizzazione è stato molto spesso usato con una accezione critica, che rinviava ad una sorta di “colonizzazione” culturale. Io invece vorrei sottolineare che l’adesione da parte del pubblico (dei pubblici) italiano a stili di vita, quadri ideologici, modelli culturali, anche sotto il profilo visuale, provenienti dagli Stati Uniti non è un processo solamente passivo, di pura ricezione, ma un processo attivo, di riadattamento ai propri modelli culturali. In fin dei conti, se ci pensate, Un americano a Roma può mostrarci il “sogno americano” di Nando Meniconi in chiave grottesca proprio perché il suo non è un adattamento di alcuni elementi della modernità (tutto ciò che è americano viene percepito come moderno) al nostro stile di vita ma una ricezione passiva che può essere ridicolizzata (la famosa scena dei maccheroni).


Il western farsesco 

Tornando al western, negli anni ’50 e primi ’60 lo troviamo al cinema con quelli che alcuni critici chiamano film “proto-western” (ad esempio la serie di Zorro o del simile El coyote, di produzione spagnola) oppure con film farseschi come Io sono il capataz con Renato Rascel (1951), Il terrore dell’Oklaoma con Maurizio Arena (1959) o  La sceriffa (1959) con Tina Pica e Ugo Tognazzi,
 e, ancora, Gli eroi del west (1963) con Walter Chiari e Raimondo Vianello: sono pellicole che ci raccontano l’infatuazione del pubblico italiano per le ambientazioni western.

Tex

Questo “amore” per il west, però, arriva anche attraverso il fumetto: nel 1948 arriva infatti in edicola un albo a strisce intitolato La collana del Tex, il cui primo episodio è Il totem misterioso. Gli autori sono Gianluigi Bonelli e Aurelio Galeppini (Galep).

Contemporaneamente i due mandano in edicola un’altra serie, ambientata tra la Francia e il Canada del XVIII secolo, su cui la casa editrice punta di più come dimostra il formato più grande, e il cui titolo è Occhio cupo.


Ad avere successo però sarà Tex, il cui cognome inizialmente sarebbe dovuto essere Killer e non Willer, com’è diventato in seguito: nella prima vignetta della prima storia lo vediamo infatti ritratto come un fuorilegge braccato dalla legge.


La contrapposizione fra le due testate è interessante perché mostrano – come dire? – la tradizione e l’innovazione nella narrativa a fumetti: il primo rimanda all’approccio anteguerra, fondato sulla cultura popolare diffusa in Italia, con una prevalenza del feuilleton e delle atmosfere avventurose alla Salgari o ai romanzi di “cappa e spada”. Il secondo si lega invece ad un immaginario nuovo, più “moderno”, diciamo così, che, in quegli anni, è ancora una scommessa (che sarà rapidamente vinta perché l’albo tocca in poco tempo le 45.000 copie).

Dicevo che attraverso Tex (e poi le decine di fumetti di ambientazione western che nasceranno negli anni successivi) prende corpo il fascino per il west che arrivava al pubblico italiano attraverso il cinema. In questo modo le vignette di Tex sarebbero una interpretazione grafica delle vedute e delle sequenze dei film di John Ford. In realtà, probabilmente se analizzassimo le modalità della ricezione del fumetto e le confrontassimo con quelle dei film western troveremmo una realtà diversa, che Antonio Canova ha raccontato così:
Per me, come per tanti della mia generazione, la Monument Valley e gli assalti alla diligenza, i ranch e i saloon, il profumo della frontiera e i binari della ferrovia in costruzione sono stati prima di tutto “segni” (o sogni…) conosciuti e frequentati sulle pagine di Tex. Erano le storie di Bonelli e i disegni di Galep a costruire un epos collettivo per una generazione – quella fra il dopoguerra e la metà degli anni Cinquanta – che non disponeva di un’epica né nazionale né generazionale, e che cercava di compensare con un immaginario da importazione la tragica mancanza di un immaginario autoctono e originale. (…) Nell’Italia povera degli anni Cinquanta, per i ragazzini che cercavano disperatamente mitologie portatili su cui fondare la propria incerta identità Tex Willer – e (…) i mitici “pards” – venivano prima (e forse arrivavano anche meglio) di John Ford, di John Wayne o di Anthony Mann. Il cinema era festivo, mentre il fumetto era feriale. Il cinema arrivava dopo. Solo dopo. Concettualmente, se non cronologicamente. E confermava, precisava, ribadiva. (…) Grazie al potere di veridizione delle immagini filmiche, il cinema funzionava come dispositivo inverante rispetto alla “realtà” dei sogni che avevano preso forma grazie ai disegni dei fumetti» (G. Canova, Memorie di un texiano non pentito, “L’Audace Bonelli”, p. 171).
Non sappiamo se arrivi prima e meglio del cinema, però Tex rielabora l’immaginario western contaminandolo con altri immaginari, dal poliziesco all’horror al fantastico e così via, costruendo un “western italiano” che modifica i canoni originari dando vita a qualcosa di nuovo e inedito che ritroveremo, di lì a poco, anche nel cinema. Come ha scritto Sergio Brancato (Fenomenologia di Bonelli, in “L’Audace Bonelli”, p. 127), Bonelli sposta gradualmente
il suo universo immaginativo dai territori ancora ottocenteschi dell’avventura storica all’immaginario sovranazionale e compiutamente novecentesco del cinema hollywoodiano, rendendo Tex l’espressione di un desiderio diffuso di esperienze “liminali”, evidenziando un aspetto implicito nella moderna mitologia della frontiera, della “terra di confine”.

  Lo spaghetti western


Inizierei ad analizzare il fenomeno che si è soliti chiamare “spaghetti-western” con una citazione, che mi sembra ne mette bene in risalto alcuni aspetti.

Quando uscì Per un pugno di dollari, nell’autunno del 1964, ricordo che vidi il manifesto in una pasticceria del centro di Grosseto (…) Mio fratello mi spiegò che era un film italiano, ma con nomi americanizzati, tutti finti. Possibile? Andavo pazzo per il cinema e il western era il mio genere preferito. Sapevo a mente I magnifici sette, Un dollaro d’onore, Sfida all’O.K. Corral, Ultima notte a Warlock. Mio padre mi portava a vedere ogni domenica un western (…) ma era stato mio fratello a portarmi a vedere i film che amavo di più, Sentieri selvaggi e Il cavaliere della valle solitaria. (…) Cosa c’entravano gli italiani? Ero già grandino, undici anni, quando [lo] vidi (…) Certo quel film cambiò completamente la mia idea del cinema western, anche se non abbandonai mai i grandi western americani che avevo amato. Rimasi attaccato allo schermo. Non avevo mai visto quei primi piani così ravvicinati, il sole sulle facce dei pistoleri, mai sentito quei suoni e quella musica. (…) Anche i miei compagni di classe andavano pazzi per i film western italiani. Ne mandai un paio a vedere Un dollaro d’onore (Rio Bravo, 1959), ma ritornarono furiosi, dicevano che quel film non c’entrava niente con il western. Cioè con il western italiano. (…) I miei compagni volevano i nostri western perché si sparava sempre, c’erano tanti morti e tanto sangue, poche donne e poche chiacchiere (Marco Giusti, Introduzione a Dizionario del western all’italiana, 2007).

Anche Burt Kennedy, un regista, descriverà più o meno con le stesse parole il western all’italiana: a John Ford che gli chiedeva com’era, meravigliato che se ne girassero anche qui e riscuotendo pure un certo successo, rispose 
No story, no scenes. Just killing. 
Fra l’altro, questa definizione dal tono un po’ supponente ci dice quanto la definizione spaghetti western fosse inizialmente spregiativa (e, per altro, omologa alle altre definizioni di western europei, tortillas western per quelli girati in Spagna e così via).
Il fenomeno è imponente, così come in generale quello del western europeo: è stato calcolato infatti che tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta in Europa sono stati girati circa 600 film western. Per quanto riguarda l’Italia alcune stime parlano di 450 pellicole prodotte o coprodotte tra il 1962 e la metà degli anni Settanta, anche se il periodo del massimo splendore del genere è tra il 1964, anno in cui esce Per un pugno di dollari, e il 1968, quando esce C’era una volta il west, entrambi di Sergio Leone (ma il terminus ad quem, per non essere troppo "leoniani", si potrebbe estendere fino al 1969-1970). Il numero impressionante di pellicole significa che il genere ha un enorme successo: il caso clamoroso è proprio quello di Per un pugno di dollari che, costato circa 120 milioni di lire e uscito un po’ in sordina, arrivò ad incassare più di due miliardi. 
Ma basta guardare un po’ alle classifiche dei maggiori incassi cinematografici di quegli anni per rendersi conto della portata del fenomeno: giusto per fare un esempio, nell’annata cinematografica 1964-1965, oltre al campione del box office Per un pugno di dollari, terzo è Una pistola per Ringo con un miliardo e 195 milioni e sesto è la parodia western con Franchi e Ingrassia Due mafiosi nel Far West (un miliardo e 69 milioni). L’anno successivo, invece, tra i primi sei al box office, cinque sono spaghetti-western. Primo è Per qualche dollaro in più (3 miliardi e 82 milioni) ; secondo Un dollaro bucato con Giuliano Gemma (un miliardo e 451 milioni); terzo, sempre con Gemma, Adiòs Gringo (un miliardo e 295 milioni); anche il quinto e il sesto incasso hanno per protagonista Ringo, il personaggio lanciato l’anno prima da Gemma (sono, rispettivamente,  100.000 dollari per Ringo con un miliardo e 114 milioni, e Il ritorno di Ringo con un miliardo e 99 milioni).

I motivi di un successo

Alle origini di questa produzione così intensa, spesso avventurosa e con un forte tasso di improvvisazione, ci sono, da un lato, ragioni culturali e, dall’altro, motivi industriali. Per quanto riguarda il primo aspetto abbiamo visto come esistesse un “amore” per le ambientazioni western che si era espresso attraverso le parodie, oppure il successo delle serie dedicate a Zorro. Ma, se si andasse a vedere la presenza dei film in sala nel 1963, si noterebbe l’abbondanza di riedizioni di western classici degli anni precedenti, tornati in sala per soddisfare – pare – proprio questa “voglia di western”. E qui entriamo negli aspetti più industriali: in quegli anni è diminuita la produzione di film hollywoodiani dedicati all’intrattenimento popolare, di cui il western era uno dei generi più caratteristici. La diffusione della televisione (che ha ritmi più rapidi rispetto all’Italia) aveva portato, da un lato, questo genere di produzione negli studios televisivi (con serie come Rawhide  e Bonanza, ad esempio, entrambe iniziate nel 1959), e, dall’altro, aveva indotto gli studios a puntare sui kolossal, che avevano delle caratteristiche che avrebbero dovuto riportare la gente al cinema; per quanto riguarda l’Italia, siamo nella fase della massima diffusione della commedia all’italiana, ma anche del film d’autore che ottiene successo commerciale (da La dolce vita in poi). C’è così spazio per produzioni cinematografiche a basso costo che possano colmare questo vuoto nel mercato: il western, in particolare con i meccanismi delle coproduzioni, si sposa benissimo con questa necessità. Come è stato scritto, 
il western all’italiana si dimostra un genere di grande agilità commerciale [che] esalta la capacità di trasformare la precarietà economica in estetica e di ottenere il miglior risultato da una base produttiva di solito piuttosto ristretta [Luca Beatrice, Il western all’italiana, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. XI, 1965/1969, Marsilio, Venezia, 2002, p. 141].

Riappropriazione simbolica

E tuttavia questi elementi non bastano a spiegare le ragioni di un fenomeno di questa portata: se lo spaghetti western è stato negli anni della sua massima fortuna snobbato dalla critica, che lo giudicava un sottoprodotto (e spesso lo era anche), è però poi stato rivalutato, forse talvolta anche in misura superiore al suo reale valore. Oggi molti critici e storici del cinema tendono a rileggere il fenomeno in chiave culturalista sottolineando, da un lato, come quei film si approprino del topoi culturali e iconografici del cinema western americano reinterpretandoli sulla base di una matrice culturale più schiettamente nazionale; dall’altro, come molti di quei film consentano di capire – insieme ad altri prodotti dell’industria culturale di quegli stessi anni – il crescere delle tensioni sociali che poi sfoceranno negli “anni ‘68”.
Vediamo il primo aspetto. Quali sono i riferimenti culturali del western all’italiana?  È stato scritto che
le radici culturali del western all’italiana non hanno (…) alcun rapporto con il western americano, ma risalgono all’epica classica, alle Sacre Scritture, alla tragedia greca, alla letteratura manierista e alla commedia dell’arte [L. Beatrice, Il western all’italiana…,  p. 142]
Per esempio il personaggio di Clint Eastwood nella cosiddetta “trilogia del dollaro” di Leone, lo “straniero senza nome”, pare secondo alcuni critici rimandare, per certi versi, ad Ulisse ("il mio nome è nessuno") e, per altri, ad “Arlecchino, servitore di due padroni”, in particolare in Per un pugno di dollari. In modo ancora più esplicito nei primi due film che hanno per protagonista Ringo (Una pistola per Ringo e Il ritorno di Ringo, entrambi per la regia di Duccio Tessari e con Giuliano Gemma, ed entrambi del 1965) si citano molto liberamente l’Iliade e l’Odissea:  in  particolare ne Il ritorno di Ringo (1965)
seguiamo il rientro a casa dell’eroe che, creduto morto, viene riconosciuto dal vecchio servo fedele, uccide i nemici e si riprende il maltolto [L. Beatrice, Il western all’italiana…, p. 142].


Alcuni critici hanno individuato dei riferimenti alle Sacre Scritture sia negli aspetti iconici (il Franco Nero di Keoma, film del 1976 di Enzo G. Castellari, con barba e capelli lunghi può rinviare alla classica iconografia cristologica, così come a quella hyppie), sia, semplicemente, in un certo tipo di titoli (Dio perdona … io no o Un minuto per pregare, un istante per morire, tanto per fare un paio di esempi) o nell’uso di oggetti che rimandano alla religione. 

Non sempre però i rimandi sono così superficiali: in Requiescant (Carlo Lizzani 1967) ad esempio il personaggio principale prega sempre dopo aver ucciso un uomo, e c’è una figura di guerrigliero “pacifista” interpretato da Pier Paolo Pasolini che rimanda in modo abbastanza trasparente ai sacerdoti combattenti dell’America Latina degli anni ’60.

La componente politica

Questo ci porta al secondo aspetto, che costituisce un altro elemento che caratterizza fortemente i western italiani: la loro componente politica. Secondo lo studioso di cinema Steve Della Casa
il western all’italiana era sì un cinema d’avventura, ma aveva soprattutto un contenuto politico molto forte. (…) Il western all’italiana non si spiega se non considerando gli anni in cui è nato, quel periodo ricchissimo tra 1965 e 1968, in cui si fecero strada il desiderio di rivolta a sinistra, la contestazione cattolica, il terzomondismo guevarista.
Da testimonianze dell’epoca sembra di capire che capitasse di frequente che i ragazzi si identificassero con gli eroi dei film e con il loro essere dalla parte degli sfruttati e degli oppressi. Ancora Steve Della Casa:
Se si è parlato di politica tra i ragazzi che andavano al cinema il sabato e la domenica, ciò è dovuto più al western che ai film degli autori giovani, come I pugni in tasca di Bellocchio, pure considerato film generazionale. Nel cinema western capivi che se Volonté rubava o ammazzava Castel lo faceva in senso politico, capivi la sua ribellione contro le figure degli imperialisti americani ed europei.

Ci sono film “politici” in senso dichiarato, come Quien sabe? (Damiani) o Requiescant (Lizzani) , o anche Giù la testa di Leone, e film di genere i cui personaggi assumono, nella ricezione del pubblico, una valenza politica: per esempio Sergio Sollima inventa nel film La resa dei conti il personaggio di Cuchillo Sanchez (interpretato da Thomas Milian), che diventa, nella ricezione del pubblico, un simbolo degli oppressi del terzo mondo e della loro possibilità di riscatto. Solo che questo carattere, come racconta lo stesso Sollima, è del tutto involontario:

Cuchillo ha funzionato anche perché le platee, e i giovani in particolare, lo vivevano come uno di loro, Non era il supereroe freddo alla Clint Eastwood, era uno molto umano, che se doveva rubare rubava, che mentiva continuamente, che aveva tutti i difetti umani ed era di una classe sociale che nel western non era mai stata raccontata. E poi era il periodo del ’68, della contestazione, e anche se per parte mia non c’era nessuna intenzione di fare un film specificamente per quel pubblico, è andata così: il film è caduto in quel periodo, ed è stato visto e amato da quel pubblico.

Un "metagenere"?

Altri registi, invece, puntano esplicitamente ad utilizzare il western in chiave di metafora. 
E' il caso di Giulio Questi (recentemente scomparso), autore di Se sei vivo spara (1967), che – ha raccontato - riversa nella pellicola le sue esperienze della guerra partigiana, dando vita ad un racconto molto crudo e violento, con sfumature quasi horror .

Tuttavia, sarebbe un errore cercare di individuare forzatamente dietro ogni spaghetti western delle interpretazioni politiche o sociali. Innanzitutto perché stiamo parlando di film di genere, che rispondono sia ad una logica narrativa che ad una logica commerciale, e spesso la seconda detta la prima (ad es. la nascita e il supersfruttamento di personaggi come Ringo, Django, Sartana ecc). In secondo luogo perché il capostipite del genere, Sergio Leone, intendeva il western "essenzialmente [come] favola e fantasia" (lo dice nella trasmissione tv Western primo amore del ciclo “Sapere”). Così le sue storie non hanno un preciso riferimento (almeno apparente) con la Storia (tranne Giù la testa) ma soprattutto con il mito, con l’idea di west che hanno raccontato i film statunitensi: non è un caso che le sue pellicole più di tutte le altre siano state in grado di ridisegnare i modelli del racconto e i topoi iconografici del genere western, perché partivano da una profonda conoscenza e da una profonda riflessione proprio su di esso.
Così il suo ultimo film western, che non per caso s’intitola C’era una volta il West, segna in qualche misura l’addio ad un genere, e, allo stesso tempo, la definitiva sovversione delle regole del suo linguaggio cinematografico (a cominciare da Henry Fonda nel ruolo del cattivo): com’è stato scritto,
è un’opera maestosa, dedicata alla grande mitologia del cinema americano e ai suoi eroi visti attraverso gli occhi di un grande cineasta europeo. Favola di un’epoca passata, C’era una volta il West punta sul tema del ricordo, ed è un vero e proprio dizionario enciclopedico in cui si ritrova tutto ciò che rende mitico il western, dalle suggestive locations della Monument Valley, omaggio ai western di Jhon Ford, fotografata da Tonino Delli Colli, alla evocativa scelta dei costumi, con la citazione dei lunghi spolverini, ancora dal fordiano The Man Who Shot Liberty Valance (1962). (…) La fine del West, la fine di un’epoca, sta tutta nella frase pronunciata da Fonda-Frank nel duello con Bronson-Armonica: “Il futuro non riguarda più noi due”.
Solo che sarà proprio la sovversione delle regole del genere operata da Leone a rilanciarlo, anche negli Stati Uniti, dove gli spaghetti western hanno un grande successo: parte della fortuna di Per un pugno di dollari deriva proprio dall’essere stato distribuito dalla United Artist negli Stati Uniti (anche se alcuni anni dopo la sua uscita italiana per una lunga causa legale). Quando il film usci in Italia Tullio Kezich, critico del "Corriere della Sera", scrisse: 
Niente da dire: il film è realizzato con competenza, il paesaggio spagnolo non è diverso da quello del New Mexico, gli effetti non hanno nulla da invidiare a quelli degli specialisti hollywoodiani. C'è tuttavia nel film qualcosa di eccessivo, che denuncia la mancata appartenenza al filone originario. Abbiamo visto western violenti di marca americana, ma in Per un pugno di dollari si esagera: stragi salgariane, torture sadiche, sangue che imbratta tutto il film. E nessun legame, ormai, con i miti della giustizia, della fantasia e della libertà. 
Non poteva sapere che proprio questa libertà creativa e questa stilizzazione sarebbero state fatte proprie da registi americani come Sam Peckinpah, a cui si devono western come Il mucchio selvaggio (1969). Leone l’ha raccontata così: 
Sam Peckinpah mi ha detto che Il mucchio selvaggio non sarebbe stato possibile senza i miei film. Fino a un certo momento i western sono stati una specie di gioco infantile, i personaggi morivano cadendo in avanti invece di essere spinti all’indietro. Le pallottole li penetravano senza lasciare traccia. Credo che Per un pugno di dollari abbia introdotto una svolta nella rappresentazione della violenza, e che abbia introdotto una forma di forma di realismo che adesso si può usare in questi film.
Realismo e stilizzazione che trasformano il film in un modello per generazioni future di registi, così come le sue invenzioni, ad esempio il "triello", poi diventato "stallo alla messicana" e luogo comune della filmografia di Quentin Tarantino.

E così, dopo aver brevemente citato l'inizio della decadenza del genere con i film della serie Trinità che "regolarizzavano" tutti gli eccessi che fino ad allora avevano fatto la fortuna dello spaghetti western, la lezione terminava sottolineando in modo circolare (avevamo iniziato con una citazione da Tarantino) i lasciti di una importante stagione cinematografica.

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